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Basta con la presuntuosa ingenuità europea.

Di Sacha Wigdorovits

Alcuni mesi fa, a causa della guerra a Gaza, sono stato contattato su Facebook da un certo Paul (nome cambiato). Svizzero, poco più che settantenne, un tempo con una posizione dirigenziale nell’amministrazione federale. Da allora, Paul e io comunichiamo regolarmente su WhatsApp e ci siamo anche sentiti al telefono una volta.

Per quanto riguarda la guerra a Gaza, le nostre opinioni non potrebbero essere più diverse. Tuttavia, gli riconosco il merito di prendersi molto tempo per informarsi (anche se a mio avviso spesso giunge a conclusioni errate), di proporre riflessioni costruttive e indipendenti sulla soluzione del conflitto e di mantenere sempre un tono cortese e rispettoso nelle nostre conversazioni.

Paul è un forte critico di Israele. Ritiene anche lui che Hamas debba essere rimossa dal potere, ma secondo lui ciò dovrebbe avvenire in modo diverso, “senza uccidere decine di migliaia di donne e bambini e senza radere al suolo le infrastrutture civili”, come dice lui.

A suo parere, Israele dovrebbe “provare qualcosa di nuovo”: ad esempio, liberare tutti i detenuti amministrativi o istituire un consiglio misto di esperti per l’uguaglianza civile tra ebrei e arabi in Israele, Gaza e Cisgiordania.

Paul propone di isolare Hamas integrando i palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza nella società israeliana. Nei primi dieci o vent’anni senza diritti politici, ma con parità di trattamento in tutto il resto. È convinto che i palestinesi siano “un popolo laborioso e pacifico” e che “l’odio verso gli ebrei non sia dominante”.

Per garantire comunque l’esistenza e i diritti degli ebrei in questo stato unitario, in cui vivrebbero circa nove o dieci milioni di palestinesi e solo sette milioni di ebrei, Paul suggerisce una protezione costituzionale delle minoranze.

Tutto questo è un’illusione. Perché ovviamente ciò non risolverebbe il problema fondamentale: Hamas deve essere eliminata il più presto possibile per spezzare il suo controllo sui palestinesi di Gaza e per evitare una ripetizione del 7 ottobre.

Inoltre, questo modello equivarrebbe di fatto alla soluzione “from the river to the sea”, cioè alla cancellazione dello Stato ebraico, richiesta a gran voce nelle nostre strade soprattutto da sinistra e dagli islamisti (Paul, per inciso, non appartiene a questi gruppi).

Ma soprattutto, proposte del genere non hanno nulla a che vedere con la realtà e con le mentalità del Medio Oriente. Si basano sull’idea che laggiù le cose funzionino come da noi in Europa. Ma non è così.

Chi crede che con argomenti ragionevoli, proposte di compromesso equilibrate e fiducia nella bontà umana si possano risolvere i problemi del Medio Oriente, sta sognando.

Un simile modo di pensare ignora la storia millenaria della regione e non comprende che essa funziona ancora in modo molto più arcaico di quanto avvenga normalmente da noi.

Le guerre tra culture diverse, come quelle tra Romani e Germani o quelle per la difesa del cristianesimo contro i Mori e poi contro gli Ottomani, in Medio Oriente non appartengono al passato: sono il presente.

Questa parte del mondo è quindi, in misura molto maggiore rispetto a noi – e più di quanto molti in Europa vogliano ammettere – segnata da diffidenza e odio reciproci. Ciò vale in particolare per l’antisemitismo radicato nella società musulmana sin dalla sua nascita, oltre 1400 anni fa.

L’odio verso gli ebrei nell’Islam risale direttamente al profeta Maometto e si è manifestato nei secoli attraverso pogrom e persecuzioni. Molto prima che esistessero lo Stato di Israele o gli insediamenti in Cisgiordania.

È quindi coerente con questa tradizione che tale antisemitismo venga tuttora propagato nei programmi televisivi per bambini e nei libri di testo palestinesi, con il sostegno finanziario anche dell’Unione Europea e della Svizzera, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania.

Per questo, l’odio verso gli ebrei non è diffuso solo tra le organizzazioni terroristiche fanatiche come Hamas o la Jihad Islamica, come spesso si afferma in Europa. È radicato in tutta la popolazione palestinese.

Un odio del genere non solo impedisce un’analisi lucida della realtà all’interno della società palestinese e dei suoi leader, ma genera anche un odio di ritorno, che si manifesta sempre più apertamente in Israele, soprattutto tra i partiti di estrema destra e i loro sostenitori, in particolare tra i coloni della Cisgiordania.

In Europa si fraintendono completamente le conseguenze politiche di questo fenomeno. Ma è evidente che, in un contesto dominato da odio e diffidenza, sopravvive solo chi è forte militarmente.

Le alleanze in quella regione non si formano per senso di “comunità di valori”, come da noi. Si stringono quando risultano utili, per ragioni politiche, militari o economiche.

Se vogliamo esportare i nostri modelli mentali, basati sulle nostre esperienze e convinzioni, nel Medio Oriente per promuovere la pace, allora siamo ingenui, presuntuosi e completamente fuori strada.

Questo dovrebbero capirlo soprattutto quei governi, partiti e politici europei che oggi chiedono il riconoscimento immediato dello Stato di Palestina e l’attuazione della soluzione a due Stati approvata dall’ONU nel 1947.

Perché ciò non avverrà.

Sì, un giorno il conflitto tra Israele e i palestinesi sarà risolto al tavolo dei negoziati. Ma il risultato di tali trattative oggi non è prevedibile.

Il rifiuto arabo del piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947, il fallito piano di pace congiunto del presidente americano Bill Clinton e del primo ministro israeliano Ehud Barak nel 2000/2001, il ritiro unilaterale e incondizionato di Israele da Gaza nel 2005, l’offerta di pace del primo ministro israeliano Ehud Olmert ai palestinesi nel 2008 e l’annunciato disarmo di Hezbollah da parte del Libano dopo la sua quasi completa sconfitta da parte di Israele – tutto ciò dimostra che in Medio Oriente la pace arriva solo quando un conflitto viene risolto militarmente e il nemico è sconfitto in modo definitivo. Proprio come è accaduto in Europa e in Giappone nel 1945.

Questo articolo è apparso anche su nebelspalter.chNebelspalter | Schluss mit naiver europäischer Besserwisserei


Sacha Wigdorovits è presidente dell’associazione Fokus Israel und Nahost, che gestisce il sito fokusisrael.ch. Ha studiato storia, germanistica e psicologia sociale all’Università di Zurigo e ha lavorato, tra l’altro, come corrispondente dagli Stati Uniti per la SonntagsZeitung, come caporedattore del BLICK e come cofondatore del quotidiano gratuito 20 Minuten.

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